martedì 10 agosto 2010

LA FEDELTA'

Il filosofo Umberto Galimberti su D la Repubblica del 7 agosto 2010 afferma che i dolori sofferti nell’infanzia, soprattutto quelli abbandonici, si possono compensare in due modi: o evitandogli agli altri, o gratificandosi con una soddisfazione narcisistica.
Una donna di 42 anni, dopo tredici anni tra convivenza e matrimonio, madre di tre figli, viene lasciata dal marito, figlio a sua volta di genitori separati.
Il signore in questione viene definito un “narcisista” perché, soprattutto in età adulta, la passione d’amore, che peraltro non è mai innocente, confonde le carte , e fa apparire come amore per l’altro quello che in realtà è una conferma che siamo ancora appetibili e desiderabili.
E siccome l’amore di sé è di gran lunga più potente dell’amore per l’altro, alla gratificazione narcisistica, soprattutto se non riconosciuta, è difficile resistere.
I figli soffriranno, anche se i rapporti fra i coniugi separati saranno “civili” perché i figli, che sul padre e sulla madre avevano investito il loro amore, constatano che non erano poi così importanti per il genitore che se ne è andato.
Ovviamente, crescendo, se ne faranno una ragione, ma sarà una ragione triste, che alimenterà vissuti depressivi, oppure una sfiducia di base a stringere legami, come à facile constatare nei giovani di oggi che si amano senza impegno e, quando decidono di convivere, lo fanno solo se garantiti che la loro scelta è revocabile
Le crisi matrimoniali non dipendono solo da una incompatibilità tra coniugi, ma molto spesso da una concezione, oggi sempre più diffusa, che risolve l’amore nella passione.
Da questo punto di vista è chiaro che il matrimonio, per il solo fatto di essere una promessa irrevocabile, appare, come dice Tolstoj, un “inferno”.
Ma l’amore passione è l’unico modo in cui si può declinare l’amore?
Se passione vuol dire “patire l’altro”, dov’è mai il governo di sé nella conduzione della propria vita?
Galimberti prosegue scrivendo che non intende con questo dire che la fedeltà è un valore, anzi, come scrive Denis de Rougemont: “La fedeltà è assurda almeno quanto la passione, ma dalla passione si distingue per un costante rifiuto di subire i suoi estri, per una costante presa sul reale, che cerca di non fuggire ma di dominare”.
Ma il “reale” nella cultura di oggi cos’è?
In una società dove i rapporti personali seguono lo schema dei prodotti di cosumo, per cui tutto, dalla scelta di un amico a quella di un amante, di una moglie, di un marito o di una carriera, può essere suscettibile di una cancellazione immediata, non appena all’orizzonte si profilano opportunità più vantaggiose o seducenti? (Christopher Lasch)
In questo tipo di cultura, dove tutto è interscambiabile, diventano sempre più difficili le scelte irreversibili, anche se, a furia di revocare le proprie scelte, difficilmente si costruisce una biografia, in cui potersi riconoscere come soggetti di vita e non semplici oggetti di passione.
Se è vero che la felicità non ignora la passione e forse neppure la sua sregolatezza, è altrettanto vero che non si accontenta di una gioia passiva, perché la felicità vuole CREARE.
Si potrebbe stabilire quindi che IL MATRIMONIO DOVREBBE ESSERE CONSENTITO SOLO AI CREATORI.

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